Tra le tante testimonianze giunte in questi giorni nel ricordo del ventennale dellalluvione, cè quella di Gianluca Negro, di Boglietto di Costigliole, che nel novembre del 1994 frequentava la
Tra le tante testimonianze giunte in questi giorni nel ricordo del ventennale dellalluvione, cè quella di Gianluca Negro, di Boglietto di Costigliole, che nel novembre del 1994 frequentava la classe quinta dellistituto per ragionieri Pellati di Canelli. Il suo è un ricordo struggente, nello stesso tempo appassionato, di ciò che la città visse in quei giorni. «Non era un sabato qualunque. Era il dì dopo la notte tanto ambita da noi studenti della quinta superiore. Quella del veglione dei Ragionieri di Canelli alla discoteca Simbol. Cera Paolo Vallesi accompagnato da una emergente Irene Grandi. Diluviava. Nulla lasciava presagire nel nostro inconscio che la nostra festa sarebbe stata il prologo ad una alluvione. Alle 13 il Belbo aveva smesso di sonnecchiare e sfiorava con la punta delle sue limacciose dita il ponte in centro città. I treni avevano interrotto già da qualche ora le loro corse. E pioveva.
Arrivai a casa sfinito: la notte era stata lunga. Mi svegliai al gracchiare antico del telefono fisso. Era mia nonna che ci aggiornava: Canelli era vinta, immersa nell acqua del Belbo. La linea singhiozzava, poi sinterruppe. Mi chiedevo come avrei ritrovato la mia scuola, se c era ancora. Lunedì iniziò il mio viaggio, diverso dai soliti: mi misi a disposizione. Fui assegnato a compiti di volontariato dal mio istituto scolastico. Santo Stefano Belbo era una roccaforte mutilata del proprio ponte. Mi dileguai in direzione di Canelli. Prima immediata impressione, quella di un lazzaretto immacolato dalla disgrazia. La tela di un pittore che aveva dimenticato il pennello intinto nel marrone: il paesaggio che mi si presentò era di un monocolore noioso, una natura morta spezzata dalle casacche arancioni o gialle dei volontari e degli addetti alla protezione civile. Mi diedero degli stivali che a dire il vero erano pure di una misura più grande, ma tant è, in quei momenti è come se fossi in apnea.
Fui assegnato ad una squadra di volontari provenienti dal bergamasco. Finii dentro uno scantinato muffoso, a combattere con l ostinazione del fango che sembrava provare piacere a vederti rallentato nel passo, tanto ti si avvinghiava alla suola degli stivali. Accendevo una sigaretta, la fumavo con le dita incrostate e non sapevo se con ogni boccata respiravo anche un pò di quella desolazione che mi circondava. Canelli è la mia città natale, dove aprii gli occhi neonati in un ospedale che non c è più, dove ho studiato, dove ho preso la patente, dove sono nate le prime vere amicizie e i primi rudimentali amori. Vedere le mani sporche di fango non era un disonore, intorno a me cera chi aveva visto le fortune di una vita annegare e raccoglieva gli avanzi dei propri averi. Cera chi piangeva o forse confondevo lacrime e sudore, ma credo che in quegli scampoli di sgraziata quotidianità avessero lo stesso sapore. Verso sera passeggiai melanconico per le vie a me più care.
Fu così che mi avviai verso labitazione di mia nonna costeggiando il ponte del Belbo, che dopo aver esposto il cartellino giallo a certe inettitudini umane aveva ripreso il suo quasi placido e beffardo corso. Appoggiai per un paio di minuti la mia schiena stanca ad un muro umido. Provai a soffocare un rigurgito di commozione o di vomito. Non era più la mia Canelli. Era una vergine offesa. Mia nonna mi accolse con gioia e compassione. Lei era la giovin donzella, io un anziano sospeso nell infermità di quella giornata. Mi mise una mano sulla spalla e mi disse: «Caro nipote, ce labbiamo fatta con le alluvioni passate e ce la faremo anche con questa. Ricorda sempre che tuo padre, quando nacque, lo portammo via in una barca avvolto in una misera coperta. Su, adesso mangia».
Giovanni Vassallo